15/12/06

Abbiamo perso il contatto con "sorella morte": lettera a Welby

Caro Piergiorgio, ho pensato molto in questi giorni, leggendo i tuoi appelli a morire, che cosa potesse dirti un credente che comprende che cosa significhi “la prigione infame del corpo”. Abbiamo vissuto in comunità molte storie simili alla tua: morti lente, inutilmente atroci, causate da malattie irreversibili.
Queste storie hanno significato per noi misurarsi con quel tipo di morte particolarmente feroce perché si avvicina senza fretta.
La vita è come il sole: sorge pieno di speranza, va su nel cielo splendente e poi tramonta. Per qualcuno il sole non è mai splendente perché la disabilità, la malattia “importante”, come dicono i medici,  rende triste, molto triste, il cielo.
Alcuni si lasciano andare: a volte imprecano, spesso sono sopraffatti da tristezza infinita. Altri reagiscono, chiedendo giustizia e solidarietà per realizzare i sogni, altri ancora fanno della loro vita un “segno” importante di dignità.
Quando la notte sta avvicinandosi, dopo aver combattuto per una vita, alcuni chiedono di morire: hanno dato già abbastanza. La fatica li ha stremati.
Noi li accompagniamo nella morte, impedendo che la medicina si accanisca per i pochi attimi in più che dice di garantire.
Ma tu hai posto un problema che va al di là della tua storia personale: hai chiesto se e quando è giusto dire basta. L’hai fatto per le tue idee e per la tua militanza.
Hai chiamato in causa la morte, evento che la scienza, la medicina, la cultura moderne ignorano: gli abitanti del primo mondo aspirano all’immortalità. Le discussioni non sortiranno grandi risultati: abbiamo perso la dimensione relativa della vita che il libro della Sapienza ha invano suggerito:
“La nostra vita passerà come le tracce di una nube,
si disperderà come nebbia

01/12/06

Addetti non profit: utili idioti?

Con una certa preoccupazione, ma sicuro di non essere distante dalla verità, constato che il cosiddetto mondo non profit sia oramai marginale rispetto alle politiche sociali.
Grandi e piccole organizzazioni del cosiddetto mondo non profit (associazioni e organizzazioni di volontariato, enti gestori) sono ininfluenti nelle scelte di politica sociale.
Vengono esaltati i numeri della loro crescita. L’ultima stima del volontariato in Italia indicava in 3 milioni e trecentomila (Studio Ipsos 2006) coloro che abitualmente fanno volontariato.  21mila le associazioni con 100 mila religiosi che si impegnano in 292 mila piccole sezioni, triplicate rispetto al 1991. Il mondo del volontariato è anche, in qualche modo, profit, essendo stimato il suo fatturato in 38 miliardi di euro.
Nelle imprese sociali a vario titolo lavorano oltre 630 mila dipendenti, che nel 70% dei casi ha un titolo di scuola media superiore.
La loro distribuzione nel territorio nazionale non è omogenea: il 60% opera al nord, il 19,3% al centro e il 20,7% al sud.
La domanda è che cosa oggi dica, in termini politici, questo mondo. La risposta secca è che contano poco, molto poco. Provo a dimostrare la tesi.

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