14/11/05

Voci e silenzi nella Chiesa

Stanno riemergendo, in queste ultime settimane, appelli perché la voce di semplici fedeli si faccia viva nello scenario religioso italiano. I Beati i costruttori di pace hanno lanciato sul web un appello da sottoscrivere; la rivista laicaMicromega, nel prossimo numero, proporrà un dibattito di quattro sacerdoti; un appello analogo è proposto anonimamente da docenti e non docenti di istituzioni ecclesiastiche.
Sembra una contraddizione perché mai, come in questo momento, la Chiesa cattolica appare compatta nella voce dei suoi Pastori e adulata e incoraggiata da forze "esterne", sia dichiaratamente cattoliche, che laiche.
Questi "sussurri" destano interrogativi. All'interno della Chiesa il dialogo dei cristiani è fin troppo coeso. Nessuna voce discordante, nessuna fantasia, nessuna voce critica. Gli studiosi (biblisti, teologi, moralisti) sono dediti ai loro studi sempre più lineari e scontati. Non hanno vie nuove da sondare: molti sono diventati specializzati in riassunti di dottrina consolidata. La vita delle Parrocchie scorre depressa; le Diocesi sono diventati luoghi amministrativi, la crisi delle vocazioni è sempre alta; dallo stesso Sinodo dei Vescovi non emergono grandi slanci e prospettive. Probabilmente la crisi di identità della Chiesa è più alta di quanto il consenso, utilitaristico e strumentale, dell'opinione pubblica dica. 
Sembra che sia prevalente "la parola": una parola lontana, molto lontana dalla vita delle persone. Preoccupata dell'osservanza della dottrina, ma poco incline alla vita. Un verbalismo esasperato. Documenti, composizioni, trattatelli che non incidono su un cristianesimo oramai alla deriva. Confessando i ragazzi e gli adolescenti della cresima non è difficile capire che sono incerti. Non conoscono i termini della trasgressione (e quindi del peccato). Un cristianesimo "fai da te" che mescola devozioni, contraddizioni, parcellizzazioni senza grandi scrupoli. Sono figli di adulti cristiani che si dichiarano tali e anche pubblicamente, benché siano bigami, molto attenti al potere, liberi di dichiarare e non di essere, attenti ai vantaggi e non alla sostanza. 
Di fronte alla deriva si elaborano parole, che diventano incomprensibili e arcane; teologicamente perfette e cristianamente inutili. Le parole cardine della fede si stemperano in scorribande di pseudo piani pastorali che nascondono, alla fin fine, un impianto anticonciliare, quello caratteristico degli anni '50 e '60, che vedevano nella Parrocchia un riferimento sicuro, educativo, incisivo. Un ritorno al passato che non è possibile, perché il mondo occidentale, in oltre quaranta anni, è cambiato. L'appello alla verità diventa sempre più intellettuale, astratto, scontato, dimenticando che il Vangelo è una proposta di vita e non di idee. 
Al verbalismo esasperato - danno ancora peggiore - si aggiunge l'estetismo: degli atteggiamenti, delle croci, dei pettorali, dei colletti, dei canti, dei suoni, degli incensi. Con parole terribili si rischia il "teatro", nella speranza che l'appello all'immagine e ai simboli faccia il miracolo di un nuovo radicamento cristiano. 
Purtroppo non è così: la crisi del cristianesimo occidentale è profonda e severa. La radice di tali crisi è il suo svuotamento. La vita di Cristo diventa biografia, i suoi appelli alla verità esortazioni; la sua radicalità scompare in virtù civiche, nemmeno vincolanti. Sembra che Hegel, con la sua filosofia dell'etica esteriore della legge, sia vincitore rispetto all'adesione profonda al messaggio evangelico. 
Ogni messaggio cristiano ha valore se invoca coerenza, umiltà, misericordia, pace, giustizia, visione di Dio. 
In caso contrario prevale, come sembra oggi, l'abbassamento degli interessi all'organizzazione Chiesa che, barcamenandosi, tende a sopravvivere. In tale contesto il popolo dei cristiani tutelano i loro interessi, scambiandoli in giochi molto umani, ma religiosamente ininfluenti se non dannosi. La santità è l'appello al vedere e al senti ...

24/10/05

Droghe: incapaci persino di repressione

L'annunciata conferenza sulle tossicodipendenze (Palermo 5-7 Dicembre 2005) sarà disertata da una consistente fetta di "addetti ai lavori". La Federserd, il Cnca, Saman, Exodus, i centri salesiani, la Lila, la Sitd, Itaca, Agesci, Arci, Acli, Forum del terzo settore, Movi, Arcadia hanno ritenuto inutile partecipare a una conferenza che non si sa di che cosa tratterà. La presunta offerta gratis di biglietti aerei non ha convinto nessuno. 
Non è una presa di posizione "antigovernativa", ma la semplice constatazione del balletto di annunci, spot, confusioni, disinteresse, abbandoni, nonostante la drammaticità del consumo di droghe, soprattutto cocaina. 
Gli ultimi cinque anni sono stati un calvario per chi opera nei servizi pubblici e nelle comunità terapeutiche di recupero. 
I contenuti della riforma proposta dall'on. Fini (approvata dal Consiglio dei Ministri il 13 Novembre 2003) si sono perduti nell'ipotesi di uno stralcio (affermazione del Ministro Giovanardi) di cui a tutt'oggi pubblicamente nessuno conosce i contenuti. 
Le competenze sono passate dal Commissario straordinario (Pietro Soggiu 2002), al Dipartimento nazionale politiche antidroga (istituito Aprile 2004), con una relazione al Parlamento ancora redatta dal Ministro Maroni e infine all'affidamento delle deleghe al Ministro Giovanardi. 
I Direttori del Dipartimento delle Politiche antidroga sono stati in tre anni Nicola Carlesi, generale Antonio Ragusa (solo nominato), attualmente Raffaele Lombardo e di nuovo (per Palermo) Pietro Soggiu. 
La conclusione è sostanzialmente l'impotenza, frutto di incapacità frammista a disinteresse. 
Dialogare con un governo che non si raccapezza diventa dannoso, perché rischia di coprire un vuoto colpevole. La lotta alle dipendenze, se presuppone un orientamento di intervento, non può sciogliersi nel nulla. Le conseguenze sono evidenti. Le dipendenze da droga sono in espansione; i nuovi consumi mettono tutti in difficoltà, le carceri continuano ad essere piene di poveri cristi; la cultura dello sballo e del piacere dilaga, il traffico di stupefacenti è quanto mai prospero. Vanno di moda le cliniche svizzere e americane, ad alto coefficiente di spesa, per chi può permetterselo. 
Così non si combatte nulla e nessuno. La responsabilità politica è alta, perché ad oggi la politica governativa è stata piena di parole e non di fatti, di annunci e non di sostanza. A noi il compito di riprendere le fila di un percorso interrotto da velleità giustizialiste. Crediamo anche si sia perduto troppo tempo. 
Occorre ripartire dall'esperienza della strada: un momento di riflessione che sappia leggere l'evoluzione del consumo di droghe ed offra percorsi di recupero efficaci. Spiace doverlo fare da soli. Ma non ci sono date scelte, considerata l'inaffidabilità degli interlocutori. 
Nel frattempo le vittime aumentano: sono soprattutto i giovanissimi che se non mettono a rischio la vita (si sono fatti più furbi) continuano a rovinarsi l'esistenza. Con loro sempre più numerose famiglie.

27/06/05

Punto zero

Punto zero è l'espressione tipica che qualcuno o qualcosa non vale nulla. Abbiamo scelto questa espressione per contestare la "cultura" oggi prevalente nel sociale. Le risorse non ci sono è il ritornello che le amministrazioni periferiche e centrali recitano con sempre più insistenza. Si insinua così la filosofia che il poco denaro rimasto vada speso per qualcuno e qualcosa che "valga la pena". Il valer la pena significa che chi riceve (nel nostro caso il disabile, il malato, il periferico) risponda con qualcosa di positivo: la guarigione, l'integrazione, la risposta.
Noi sosteniamo la tesi che questa equazione non può esser fatta perché è indegna, crudele, pericolosa.
Indegna perché offende chi è costretto a ricevere, ma anche chi "dona". Che colpe possono essere attribuite a chi è nato male, non sta bene, ha bisogno di cure e attenzioni? La condizione di debolezza (anche quando si possono individuare delle responsabilità) non è mai punibile. La solidarietà di un popolo si esprime attraverso l'integrazione dell'aiuto: il sano per il malato, il giovane per il vecchio, l'abbiente per il non abbiente. La storia umana è stata possibile grazie a questa integrazione. D'altronde non possono esistere "naturalmente" gruppi e/o popoli composti da sani, giovani, forti, ricchi.
Nonostante questa convinzione, il rischio del ridurre all'essenziale le risorse per il sociale, quasi a volere risparmiare, è molto alto. A ben riflettere è la tentazione del potere sulla debolezza, espresso nella forma raffinata della limitazione delle risorse.
La tendenza al calcolo nel sociale è anche crudele. Logica "umana" vorrebbe che chi ha bisogno di aiuto debba essere aiutato. Infatti il forte, il sano, l'integrato resiste per propria energia. Abbandonare chi sta male significa approfittare della propria forza per se, senza la dovuta attenzione a chi è debole.
Infine la tendenza sopra descritta è pericolosa perché seleziona la specie in un sogno di delirio con il quale si vuole possedere il mondo efficiente per sé.
Queste riflessioni non sono generiche: riguardano la nostra realtà sociale. Ogni giorno ci vengono ripetute limitazioni per tutte quelle circostanze che hanno bisogno di sostegno. La disabilità, la malattia mentale, l'abbandono minorile, la carcerazione, la problematicità delle condizioni familiari della nostra gente e degli stranieri sono tutti terreni nei quali il calcolo è attivo. Con l'aggravante che solo per chi è in difficoltà viene invocato il risparmio e la limitatezza delle risorse, dando per scontato che le risorse, questa volta senza calcoli, debbano essere spese comunque per gli addetti ai lavori.
Combattiamo con tutte le nostre forze questa tendenza. Anche per chi è nelle condizioni di punto zero sogniamo un mondo solidale, felice, fraterno. Ci spendiamo per essere a fianco di quanti stanno in difficoltà: inseguiamo la loro felicità, ma anche la nostra, perché sogniamo un mondo vivibile per tutti, senza distinzioni.

Cerca nel blog