25/11/03

Al Senatore Emilio Colombo

Gentile Presidente, la chiamo anch’io così: le sue dichiarazioni sull’uso personale di cocaina ci hanno lasciati tutti di stucco. Saranno rimasti male sia il Presidente del Senato che quello della Camera che si erano preoccupati dei privilegi dei Senatori e dei Deputati. Per la verità anche noi che ci occupiamo di tossicodipendenti, siamo rimasti interdetti. Alla sua età, nella sua posizione, come si fa?
Sarà stata depressione, noia, lei parla di “uso terapeutico”, o che cos’altro?
In realtà l’hanno trattata bene: la procura, i giornali, l’establishment. È vero che hanno divulgato la notizia della sua deposizione, ma non hanno infierito su di lei. Un redattore di telegiornale delle 20.00 ieri ha detto che ha “il vizietto” con la parolina allusiva e comprensiva, come si conviene a persone di rango. Per i normali assuntori di droghe non è che siano poi così educati, una strapazzata, qualche giorno di galera, un po’ di sana (dicono) paura non guasta, come si arrabbierebbe un padre di famiglia.
Non sappiamo che cosa ora le succederà: probabilmente nulla. Fa uso personale di droga, è incensurato, ha un’età veneranda, nessun giudice l’obbligherà a nulla. Potrà patteggiare la pena, sempre che il Senato permetta il processo. Nessuno le toccherà il titolo di Senatore a vita con relativa prebenda. Eppure, presidente, quella cocaina che dice di assumere da poco più di un anno (dice la verità? perché i tossici sono bugiardi), è la stessa che rovina ragazzi e famiglie, facendoli precipitare nella non vita. Non c’è droga di ricchi e di poveri. Ma droga coltivata da contadini, contrabbandata da delinquenti criminali, spacciata in ambienti squallidi per denaro e per uso personale.
E le è andata bene. Se l’avessero scoperta dopo l’introduzione della nuova legge, le avrebbero tolto la patente (non so se anche l’autista), il passaporto (che vergogna) e l’avrebbero spedita ai servizi sociali. A meno che la quantità sequestrata non avesse superato i 500 mg perché allora sarebbero stati guai: l’avrebbero considerata spacciatore. Se potessi suggerire qualcosa al giudice, consiglierei di farle fondare una comunità di recupero, una volta disintossicato, per vip, politici e industriali, imprenditori e ricchi nullafacenti. Il tutto per il dono della vita che è un bene prezioso per ognuno.
Con affetto
don Vinicio
P.S. Sempre disponibile per eventuali consigli.

13/11/03

Morti inutili

E' sempre terribile la notizia della morte in guerra di un padre, di un figlio, un fratello, un fidanzato, un marito, un amico. Lo proveranno tutto, senza sconti, le famiglie dei nostri carabinieri e militari, morti in Iraq.
Gli uomini delle istituzioni faranno di tutto per dare solennità a quelle morti: funerali di stato, con bandiere, fanfare e medaglie. Alle famiglie resteranno foto, lettere, telefonate. Presto ingialliranno, per lasciare il posto al silenzio duraturo della scomparsa del loro caro. Hanno chiesto di non fare polemiche: tutti silenziosi di fronte alla morte. Ma nonostante il silenzio imposto, rimane la domanda se il sacrificio di quelle vite era necessario. Noi rispondiamo di no: come non era necessaria la guerra.
Hanno manomesso rapporti di intelligence dei loro paesi pur di convincere l'opinione pubblica che era necessaria; si sono autoproclamati angeli giustizieri prima contro la armi di distruzione di massa, poi contro il dittatore Saddam, ora contro il terrorismo. Giustificazioni postume per dire a tutti che la guerra era doverosa. L'Italia ha spedito contingenti di uomini, soprattutto del sud che, con l'essere militari, si riscattano dalla disoccupazione e dalla vita precaria; hanno dato giustificazioni altruiste e nobili a una guerra che non era né nobile, né gratuita. Qualcuno aveva scongiurato di ricorrere a tutti i mezzi, ma non alla guerra, per fermare Saddam: ricordiamo tra questi il Papa. Ha invocato, pregato, attivato messaggeri e diplomazia. Inascoltato, perché occorreva liberare l'umanità dalle forze del male, rimproverandolo, nemmeno troppo discretamente, di favorire la feroce dittatura di Saddam.
In queste ore, nella nostra Italia, la giustificazione della presenza italiana in Iraq ondeggia tra l'immagine di soldati forti che combattono il terrorismo e quella di portatori di umanità che fraternizzano con le popolazioni locali. In Iraq incombe una guerra, dichiarata vinta, ma che si dimostra non vinta. E tra le tante vittime risultano nostri concittadini perché sono stati identificati con il nemico. I nostri soldati sono morti per una guerra di governi; nemmeno di popoli. L'affetto va alle famiglie dei nostri soldati e non colmerà l'inutilità di vite perdute. Ritornino a casa tutti i nostri uomini: potranno partecipare alle missioni umanitarie solo ed esclusivamente quando saranno effettivamente garanti di pace e di fraternità: non certamente in Iraq.

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